La cenere del tempo silloge

20150317_164247Silloge La cenere del tempo

PREFAZIONE di Alessia Mocci alla LA CENERE DEL TEMPO

Il tempo ha affascinato ogni essere umano, sin dalle origini infatti l’uomo ha provato a determinare il tempo inglobandolo in una struttura prettamente antropica. La poesia ha sempre avuto un rapporto esclusivo con il tempo e con la sua versatilità in quanto non lo si considera “definibile” ma esteso. Questo è un alto concetto di cui si parla sin dagli inizi della cultura greca, tempo e spazio sono così indeterminabili da un unico essere, sono la rappresentazione di un immenso che non ci è dato conoscere.

“Di ciò che non so/ taccio grata// non mi domandare/ né indagare del mio essere.// s’aprono e si chiudono/ paratie d’acciaio// Di ciò che so/ taccio sicura// tuttora la ricerca/ è laboriosa// a nulla di certo/ sono pervenuta// esteso è il tempo/ e vasto è lo spazio.” – “Paratie”

“La cenere del tempo” rielabora concetti misterici del poeta in concomitanza con il mondo moderno che ha accelerato i ritmi della vita a tal punto da non aver individuato una direzione possibile per quelle menti che ancora sono in viaggio alla ricerca delle risposte alle domande esistenziali che ancora tormentano l’uomo contemporaneo. L’essere umano, oggi così piegato alle esigenze della società, si trova smarrito e riflette sulla caducità delle strutture umane rivelando in tal modo tutto il suo malessere.

In particolare, l’Io poetico, si sofferma su ciò che ha vissuto con la consapevolezza di non poter afferrare tempo e spazio: qualora uno fosse certo, l’altro si contorcerebbe nelle passioni e debolezze. È un rivelarsi nudo davanti al lettore, che ha la possibilità di intravedere spiragli di luce dietro alla coltre di malinconia presente, una malinconia che guarda al passato per concepire un presente vagabondo ma ancora foriero di emozioni e di passioni.

“Raminga/ solitaria e perlacea,/ nel tuo cielo,/ indifferente/ scagli// i tuoi raggi diafani/ ad inseguire/ il mio cauto errare/ fra le asperità/ di questa terra,// oh sì, di questa terra,/ dove la mia ombra/ ora s’interseca ora s’incatena/ alle altre mute essenze,/ ora umile ora superba,// accanto sosta/ e poi fugge/ e poi ritorna,/ ma non si disperde/ ma non si tramuta// […]” – “Vagabonda”

Giovanna Fracassi continua, con questa nuova silloge poetica, un discorso iniziato nel 2012 con “Arabesques” e proseguito con “Opalescenze” (editi entrambi per la casa editrice Rupe Mutevole Edizioni nella collana editoriale “Trasfigurazioni”).

Cipressi e gelsomini cospargono il percorso di questa autrice che rivela in ogni sua raccolta un nuovo aspetto del suo sentire, del suo poetare. (Alessia, non capisco come si lega questo concetto con quanto espresso prima)

Le liriche, grazie ad uno stile devoto alla brevitàs, sono da intendersi come brividi d’emozioni nei quali l’Io sibila verità che a voce alta non riuscirebbe mai a pronunciare. Come una foglia d’autunno, l’autrice è in un limbo, ha la consapevolezza che cadrà ma non sa quando il soffio del vento inaugurerà il suo nuovo viaggio. È una solitudine apparsa sin dalla nascita della foglia, l’energia creatrice aveva nascosto nella sua essenza un malinconico agitarsi di passioni e follie, nonché rimembranze di amori mai vissuti e di pulsazioni che non si incontrano nella vita reale.

“[…] Quanto è durato/ il tuo viaggio/ nei cieli della desolazione/ fra gli astri freddi/ aridi d’amore/ nei deserti di indifferenza/ dove il tuo grido/ ha squarciato/ le tenebre fin oltre l’universo.// Hai trovato la tua maschera / la finta speranza/ nel gioco crudele/ delle parti/ invertiti i destini/ ora non sei più nulla/ e di ciò che eri/ sabbia fine/ disperderà il tempo.” – “Viaggio”

Cenere, sabbia, polvere. Una via nella quale l’animo si commuove, elementi sottili che appartengono al tutto e che difficilmente vengono separati dalla loro massa. L’interrogazione dell’Io, però, richiede di centellinare ognuno di questi elementi per esplorare l’unico, per constatare quanto un granello sia vagabondo nel lasciarsi trasportare dal vento, senza prendere alcuna pretesa di decisione ma con la libertà di accettare ciò che accade durante il suo percorso.

“Non hanno più ali/ i vuoti/ e le mancanze,// non c’è più/ un anfratto/ o una foglia/ di luce// e// neppure il calore/ di una voce.// Non c’è più/ il passo consunto/ dell’incontro d’amore// e// neppure il segreto/ condiviso e ancor celato/ al ronzio nervoso/ della moltitudine.” – “Nulla”

Intervista di Alessia Mocci a Giovanna Fracassi per la sua nuova silloge “La cenere del tempo”, 2014

“Che t’ inquieta/ anima mia,/ che vai/ febbricitante/ di astro in astro.// Che ti affanna/ anima mia,/ che incauta/ t’aggiri/ di selva in selva/ e penetri/ di ombra in ombra.// Che ti flagella/ anima mia,/ che ti esponi/ ai venti/ di tormenta/ e t’avventuri/ fra i flutti/ tumultuosi.// […]” – “Anima mia”
La prima poesia che incontriamo nella silloge “La cenere del tempo” è “Anima mia”, un’invocazione dell’Io poetico alla propria anima per esortarla a seguire la sua narrazione durante il lungo percorso che si è in procinto di compiere.
“La cenere del tempo” è l’ultima pubblicazione di Giovanna Fracassi, edita nell’aprile 2014 dalla casa editrice Rupe Mutevole Edizioni per la collana Trasfigurazioni. Una silloge che continua le tematiche care all’autrice come la solitudine, la malinconia, il dolore, la separazione, la nostalgia.
Tematiche che ritroviamo per l’appunto anche nelle due precedenti pubblicazioni di Giovanna: “Arabesques” ed “Opalescenze”. Un Io in eterna ricerca del proprio animo e della comprensione dei propri stadi umorali.
Giovanna Fracassi è stata molto disponibile nel rispondere ad alcune domande sulla sua poetica e sulla sua nuova silloge. Buona lettura!
A.M.: “Arabesques”, “Opalescenze” ed ora “La cenere del tempo”. Senti un cambiamento nella tua poetica?
Giovanna Fracassi: Da quando, dopo un lungo periodo, ho ricominciato, scrivere, per me, è diventata un’esigenza quasi quotidiana. A volte i pensieri che urgono per aver voce sono come un fiume in piena. È pertanto naturale che la mia poetica sia in continua evoluzione. I temi di fondo a me cari sono sostanzialmente i medesimi ma vi è una continua ricerca di approfondimento e di nuove forme espressive. I temi ricorrenti nelle mie poesie sono l’assenza, la nostalgia, la malinconia, il ricordo e lo smarrimento, talvolta la rabbia, Essi sono tutti correlati e costituiscono i riflessi tangibili di quella che è la mia filosofia. La cifra ultima rimane comunque il dolore: il dolore visto non sempre e non solo in modo negativo ma come possibilità dell’esistenza stessa. Nulla può crearsi se non utilizzando ciò che è già distrutto o comunque con un atto di dolore, di separazione (come avviene per esempio nella nascita). Dal dolore e con il dolore si creano nuova vita, nuove esperienze, nuove emozioni, nuove realtà. Al dolore sono connessi la nostalgia per ciò che è passato, per i volti che il tempo si è portato via , la malinconia con tutto il suo struggimento per ciò che più non è né più potrà essere e del quale si sente la mancanza. Ed è l’assenza che permea di sé il dolore; assenza intesa non solo di qualcuno o di qualcosa ma soprattutto di quell’io che è in continua trasformazione, è cangiante e mutevole al punto tale da creare sgomento, inquietudine, ricerca di quel nucleo profondo non solo di se stessi ma della nostra vicenda sulla terra. Infine lo smarrimento, la vertigine di sgomento che si provano di fronte alla consapevolezza dell’ ineludibilità del proprio trascolorare in un tempo delimitato e il senso di rabbia impotente per tutte le esperienze, le emozioni, le occasioni che non si potranno vivere, cogliere. Ecco allora che una vita non basta, ecco allora il grido disperato e la strenua difesa di una speranza: che tempo e spazio siano dimensioni inconsistenti che si possa e si debba giocarsi ancora e ancora. In tempi e spazi che non si rammentano e non si conoscono ma che esistono e che consentono anche di ritrovare, di intercettare quelle anime, quegli spiriti che tanto si amano. Da questo scaturisce il sentimento della solitudine, la solitudine esistenziale, connaturata alla stessa vita, solitudine che si apre all’empatia verso l’altro vissuto come temporaneo compagno di viaggio, per un breve o lungo tratto della propria storia e al quale si può donare la propria partecipazione e dal quale si può ricevere altrettanto ben sapendo però l’estrema provvisorietà di ogni incontro, di ogni rapporto. Per concludere, dolore nella sua accezione più ampia per me coincide, in massima parte , con l’idea del nulla. Quel nulla dal quale proveniamo e al quale torniamo (e qui naturalmente esulo da qualsiasi discorso religioso), un nulla però che ha in sé le infinite possibilità dell’esistenza, delle esperienze di vita, degli incontri, delle emozioni e dei sentimenti. Un nulla che ci circonda e ci rende portatori di significato e di fronte al quale proviamo un forte senso di smarrimento: perché sapere di potersi giocare la propria vita è una consapevolezza che sa, essa pure, di vertigine. Il nostro viaggio è un camminare sul precipizio del nulla, ma finché ci siamo noi, non c’è il nulla ma il significato. Ancora v’è dolore nel ricordare non solo persone a noi care che si sono allontanate o che non ci sono più ma anche nel pensare a quel nostro tempo vissuto nei luoghi dell’infanzia: malinconia, struggimento, nostalgia per un giardino, per una casa, o una stanza, ma anche per le voci, i volti, le attività, i giochi. Ovvero per quella parte di noi che non c’è più, s’è allontanata in quel nulla, in quel tempo che non può più ritornare; per quel noi stessi che non siamo più. Il cerchio così si chiude: è con il dolore che emergo dal nulla, è il dolore che accompagna ogni fase della vita, è con il dolore che al nulla ritorno. Nelle mie poesie vi sono parole che tornano spesso: tempo, spazio, assenza, anima. Anima perché tutto: pensieri, riflessioni, emozioni, sentimenti; si genera e vive in questo concetto di cui mi servo per indicare la mia interiorità, quel “luogo” appunto dove il tempo non ha più significato e l’ieri, l’oggi e il domani sono categorie superate nella speranza che tutto possa ritornare che niente sia davvero perso per sempre e che di ciascuno di noi rimanga sempre qualcosa.
A.M.: La copertina della tua nuova silloge è una tua fotografia, ci racconti qualcosa su quella casa innevata che domina il paesaggio?
Giovanna Fracassi: Ho scattato la foto della copertina parecchi anni fa: si tratta della mia casa natale. Non vi abito più da molto tempo ma vi ho trascorso gran parte della mia vita e tutti gli avvenimenti importanti della mia esistenza sono stati vissuti in quelle stanze. Molte delle mie poesie hanno come sfondo e riferimento proprio questa casa e il grande giardino dove sono cresciuta. Il breve componimento, posto in apertura della silloge, “Dimora” è riferito ad essa.
A.M.: Il concetto di tempo ha da sempre affascinato il versificare dei poeti, qual è il tuo rapporto con il tempo?
Giovanna Fracassi: Il tempo è, per me, il respiro della vita. Senza questo concetto non potremmo collocare i ricordi, agire nel presente, proiettarci nel futuro. Esso ha una duplice valenza: quella soggettiva, il mio tempo, la mia storia; e quello oggettiva, la storia universale, il tempo condiviso, quello degli altri. Io scrivo del tempo soggettivo interpretato secondo la mia poetica e declinato alla luce delle mie esperienze.
A.M.: Qual è il tuo rapporto con la notte?
Giovanna Fracassi: Molti sono i momenti della giornata che mi affascinano: l’alba, il tramonto e la notte. Questa è cesura di un dì dall’altro, il momento sospeso in cui tutto è stato e tutto deve ancora essere. In questo senso è un mistero nel quale mi piace sprofondare per entrare in contatto con la mia parte più autentica, e ascoltare il sedimentarsi delle riflessioni e delle emozioni che durante il giorno, nelle attività frenetiche, faticano ad emergere. Nella notte i sensi si aprono e suoni, profumi, immagini portano l’infinito dentro di me ed il contatto con l’universo e l’eternità si fa più intimo e più intenso
A.M.: Ci sono degli autori contemporanei che leggi e stimi? Ci consigli qualche nome?
Giovanna Fracassi: Premetto: preferisco leggere autori classici. Tra i moderni apprezzo Salinas, Neruda, Quasimodo, Saba.
A.M.: Tre raccolte poetiche pubblicate con la casa editrice Rupe Mutevole Edizioni. Che rapporto hai con l’editrice ed i suoi collaboratori?
Giovanna Fracassi: Con la casa Editrice Rupe Mutevole e con i suoi collaboratori i rapporti sono ottimi, come dimostra il fatto che sono giunta ben alla terza pubblicazione singola più una partecipazione ad una antologia. In particolare apprezzo, oltre all’ indiscussa professionalità, la volontà di conoscere i propri autori e di mantenere una buona comunicazione improntata alla trasparenza, alla sincerità ed ad una collaborazione proficua. Si stabiliscono in questo modo rapporti di stima e di fiducia reciproci.
A.M.: Nella lirica “Il vecchio” scrivi: “Gli occhi cerulei/ del vecchio/ si spalancano sorpresi/ increduli:/ che mai porterà il futuro?//[…]”, ed a fine intervista ti chiedo: che cosa ti aspetti da questa nuova pubblicazione?
Giovanna Fracassi: Ho scritto questa lirica dopo aver ammirato, all’interno di una mostra d’arte, il ritratto di un uomo anziano. Gli occhi vivaci e lo sguardo intenso mi hanno fatto pensare alla curiosità ed al desiderio di conoscenza che possono essere presenti anche in chi sa che il tempo non gli basterà per soddisfarli. Ritorno al concetto del tempo. Infatti ho deciso di pubblicare, ogni qualvolta ho una silloge pronta, al più presto, proprio perché mi sento in gara con il trascorrere veloce della mia vita. Desidero, pertanto, che rimanga traccia del mio pensiero e che a qualcuno possa giungere la mia voce.
A.M.: Salutaci con una citazione…
Giovanna Fracassi: Sono due le citazioni con le quali mi piace salutarvi. Entrambe sono per me significative perché in ciascuna riverbera qualche elemento del mio poetare.
“A cosa servono i versi se non a quella notte/ in cui un pugnale amaro ci esplora, a quel giorno,/ a quel crepuscolo, a quel cantuccio offeso/ dove il cuore stremato dell’uomo si prepara a morire?” – Pablo Neruda
“Se poetando io potessi penetrare nel mio petto, afferrare il mio pensiero e con le mani deporlo nel tuo, senz’altre aggiunte: allora, per confessare la verità, sarebbe esaudita tutta l’esigenza della mia anima.” – Heinrich von Kleist

LE CENERI DEL TEMPO – GIOVANNA FRACASSI

Recensione di Irene Gianeselli
È un io lirico sofferente quello che si affaccia dalle pagine della silloge poetica “Le ceneri del Tempo” di Giovanna Fracassi per Rupe Mutevole Edizioni. Un io che cerca conforto, che costantemente tenta di allontanarsi dagli “umidi anfratti del dolore” e dai “labirinti di angoscia” del disincanto alla ricerca di un’altra “anima nera” che possa comprendere il suo struggimento. Eppure il dolore continua a “mormorare” perché, anche se è la speranza ad ardere, ciò che rimane è sempre e solo cenere: sempre un vento gelido “sventra il tiepido rifugio”, sempre come la luna – ma senza la speranza di essere eterno – l’io lirico è un “vagabondo” che “ancora transita nella sua breve notte”. E così Giovanna Fracassi traccia il suo percorso fra anafore, ossimori e allitterazioni. La speranza, la sorpresa, il profondo desiderio di affidarsi a qualcuno che sappia sciogliere quella segreta rassegnazione con cui l’io cerca di nascondere le proprie emozioni seppellite dall’orgoglio si concentrano negli ultimi versi di “Cenere”: “Sarai così per me/brace dei miei giorni/impalpabile cenere/del mio tempo”. Perché anche il tempo, nonostante sia effettivamente incommensurabile, nel suo scorrere lascia dietro sé la polvere dei fuochi che spegne e che rigenera.